Il Cerchio di gesso

UN CONTRIBUTO ALLA COMPRENSIONE STORICA DEL 1977
di Vittorio Boarini

La possibilità di accedere all'intera raccolta de «Il cerchio di gesso» offerta dalla Biblioteca dell'Archiginnasio costituisce indubbiamente un contributo alla conoscenza storica dei drammatici fatti accaduti a Bologna nel 1977. La rilevanza specifica dell'implicito invito a ripensare criticamente gli eventi che, nella memoria di molti, segnarono una frattura mai più ricomposta nella vita della nostra città, la giudicheranno, ovviamente, i lettori. È bene però premettere alla lettura dei testi alcuni cenni sul contesto storico-sociale e sugli avvenimenti che portarono alla costituzione di questa rivista.

I processi di socializzazione del capitalismo, che quale reazione all'eversione del Sessantotto si affermavano in tutto l'Occidente, assumevano nel nostro Paese la figura politica del compromesso storico, un progettato accordo fra i due maggiori partiti italiani, da sempre avversari, la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista, già anticipato, sembrava, da un governo di unità nazionale sostenuto dai Comunisti, che avevano un loro esponente di spicco alla presidenza della Camera. Le forze politiche del cosiddetto arco costituzionale, praticamente tutte quelle rappresentate in Parlamento tranne l'estrema destra, si adoperavano, con qualche riluttanza del Partito Socialista, per fondere politico e sociale nella società totale, dove il politico pareva dissolversi nel sociale divenuto l'organizzazione politica del consenso.

Il movimento del 1977, rivolta studentesca provocata dall'omicidio di Francesco Lorusso da parte delle forze dell'ordine durante una manifestazione, fu l'elemento sintomatico che permise a un gruppo di intellettuali, in seguito definiti «del dissenso», la comprensione di quanto stava accadendo. La condizione costitutiva della società totale imponeva, da un lato, l'emarginazione di un soggetto sociale, il movimento degli studenti, escludendolo dalla Polis (i funerali di Lorusso si dovettero tenere fuori dalle mura cittadine), dall'altra, la eliminazione della critica, quindi degli intellettuali dissenzienti, intollerabile contraddizione nella totalità del consenso all'operato delle forze politiche capeggiate, nella repressione di ogni dissenso, dal Partito Comunista. Resta da aggiungere, come ebbe a scrivere Pietro Bonfiglioli («Quotidiano dei lavoratori», 27 marzo 1979), che una società così strutturata suscitava, in uno specchio rovesciato di se stessa, forme sempre più intense di terrorismo (culminate, nel 1978, con il rapimento di Aldo Moro).

Ma vediamo i fatti. La reazione degli studenti alla morte del loro compagno (11 marzo) determinò la messa in stato d'assedio della città, con l'uso da parte della polizia anche di carri armati. Per tre giorni Bologna, con la zona universitaria isolata - d'altra parte i gas lacrimogeni ne rendevano irrespirabile l'aria - subì un processo repressivo sostenuto dalla maggior parte dei media e dall'opinione pubblica benpensante, indignata «perché le vetrine sono rotte» (si veda la poesia Libro paradiso di Roberto Roversi nel primo numero della rivista). Il giorno successivo allo scoppio della rivolta venne chiusa manu militari dalle forze dell'ordine Radio Alice, una «radio libera», come venivano definite le emittenti innovative autogestite sorte in varie parti d'Italia, che trasmetteva in diretta gli scontri fra rivoltosi e polizia. La gravità di questo evento, fra l'altro tutti i redattori della radio erano stati arrestati, non sfuggì a quel gruppo di intellettuali ai quali abbiamo fatto cenno, che sei giorni dopo redassero e diffusero l'appello, pubblicato sul primo numero della rivista. L'adesione a questo richiamo alle libertà costituzionali minacciate, anche per il tono sostanzialmente garantista in cui fu redatto, fu enorme per quantità di firme raccolte e per l'autorevolezza dei firmatari. Tutto ciò può essere verificato dai lettori - le firme sono pubblicate di seguito all'appello - ma riteniamo opportuno segnalare i nomi di Ludovico Geymonat e Franco Basaglia, Emilio Vedova e Cesare Zavattini, Gianni Celati e Carlo Ginzburg, fra i più significativi dell'elenco. Tralasciamo, invece, le adesioni 'politiche' (l'intero gruppo dirigente del Partito Radicale ad esempio), però non possiamo tacere il consenso di personalità straniere, anche perché molti intellettuali francesi si impegnarono a organizzare un convegno contro la repressione, che si tenne a Bologna nel settembre di quello stesso anno, ma ci limitiamo a citare Jean Paul Sartre.

L'impegno maggiore di alcuni dei promotori dell'appello fu di andare oltre l'appello stesso e consentire concretamente a Radio Alice di riprendere la propria attività. Su proposta dell'avvocato Mauro Mazzucato, Pietro Bonfiglioli, Gianni Scalia, Bernardino Farolfi, Concetto Pozzati, Carlo Gaiani e chi scrive comperarono per una cifra simbolica, con atto stipulato dal notaio Federico Stame, la Radio. Con la copertura dei nuovi proprietari i redattori superstiti poterono riprendere liberamente le trasmissioni e continuarle indisturbati. Ovviamente, le posizioni espresse da Radio Alice non riflettevano quelle dei proprietari, i quali pensarono di darsi uno strumento per comunicare le proprie riflessioni sugli eventi che avevano rovesciato «l'isola felice» in una città assediata. Così nasce «Il cerchio di gesso», nascita favorita dalla circostanza che uno dei più prestigiosi intellettuali di quel gruppo, Gianni Scalia, il quale aveva già fondato e diretto numerose riviste (compresa quella [«Officina», n.d.r.] con Pasolini, Roversi e Leonetti, divenuta famosa nel mondo), aveva in animo da qualche tempo di crearne una nuova e ne aveva parlato con alcuni di noi. Fu del tutto naturale che Scalia si dedicasse con passione a «Il cerchio di gesso», trovando la piena partecipazione, oltre che, ovviamente, dei sodali proprietari di Radio Alice, di Stame e di Roversi, nonché di Giuseppe Caputo, Paolo Pullega, Giorgio Gattei , Maurizio Maldini, Roberto Bergamini e Giulio Forconi, per citarne solo alcuni.

Si deve anche sottolineare, a proposito del titolo della rivista, proposto da Scalia e accolto da noi tutti, che ancora oggi in Via Mascarella sono visibili sul muro, sotto una lastra di vetro, i fori dei proiettili, cerchiati col gesso bianco, uno dei quali uccise Lorusso colpendolo alla schiena.
A proposito di questa morte, va anche notato che il pubblico ministero Catalanotti, allora fra i più impegnati nell'azione giudiziaria contro il Movimento, ha dichiarato nel marzo 1997 (M. Smargiassi, La verità del sig. K. 'Si cercò il morto', «la Repubblica», 9 marzo 1997, p. VII) che l'omicidio dello studente faceva parte della «strategia della tensione», alludendo, probabilmente, al fatto che, a suo avviso, dietro quel morto c'erano i Servizi.

Ma torniamo alla rivista per notare che i temi principali trattati dai redattori e collaboratori erano strettamente legati ai processi politici e istituzionali che, a loro avviso, erano all'origine dei fatti del Settantasette, vale a dire la crisi della democrazia nella società totale con il conseguente manifestarsi del dissenso degli intellettuali, i quali concentravano le loro analisi sulla critica della politica e del marxismo, nonché sulla nuova creatività eversiva, alla quale il movimento degli studenti, autodefinitosi «indiani metropolitani», aveva dato vita.

L'uscita del primo numero richiamò una grande attenzione da parte dell'intellighenzia di sinistra, in particolare da parte di alcune personalità del Partito Comunista, che intervennero con varie modulazioni critiche, tutte molto severe, nei confronti dei responsabili de «Il cerchio di gesso». Fra questi dobbiamo segnalare almeno Alberto Asor Rosa e Giorgio Napolitano (ambedue su «L'Unità»), ai quali rispose fermamente Pietro Bonfiglioli con La critica dei critici, pubblicato sull'«Agenda numero 1», supplemento della rivista uscito in occasione del convegno contro la repressione.

Le critiche, anche quelle espresse in forma radicale, non scoraggiarono il gruppo redazionale, che continuò con rinnovato impegno nella sua impresa. Semmai la fase critica di tale impegno si manifestò successivamente per un conflitto interno originato dalle varie interpretazioni che i redattori davano del termine 'dissenso', conflitto che determinò l'uscita dal gruppo, assieme ad altri, di Gianni Scalia (si veda il suo articolo di commiato e la risposta della redazione nel numero 3 della rivista).

Abbiamo accennato all'«Agenda numero 1», la quale fa parte organica della rivista e contiene saggi assai interessanti dal punto di vista teorico. In realtà il livello culturale generale si mantenne alto fino all'ultimo numero, uscito doppio nel novembre 1979, con interventi di personalità italiane e straniere di indiscusso prestigio. Precisato tutto questo, resta la questione, che abbiamo detto essere di competenza dei lettori, di una valutazione storico-teorica de «Il cerchio di gesso»; io voglio solamente accennare al fatto che la rivista, oltre ad essere stata un'imprescindibile voce fuori dal coro, fu il tentativo di interpretare il Settantasette come la prima stridente contraddizione del processo restaurativo iniziato dopo il Sessantotto e, secondo molti osservatori, tuttora in corso. Le analisi di allora, anche quando si manifestano in forma di poesia, come suole fare Roversi, o prendono veste di un fumetto, secondo la creatività di Andrea Pazienza, o sono opere pittoriche, come quelle di Pozzati, costituiscono una critica del presente che potrebbe essere ancora di attualità.