Loriano Macchiavelli, Noi che gridammo al vento (2016)
Noi che gridammo al vento è composto da due narrazioni che procedono parallelamente dal punto di vista della struttura testuale ma con continui intrecci e rimandi sul piano diegetico.
Un tradizionale narratore in terza persona racconta il viaggio di Stella - ricercatrice che vive a Basilea ma lavora per i Servizi segreti - nei luoghi della propria infanzia, che lei però ha rimosso dalla memoria a causa di uno shock che le procura incubi continui. Questa parte della storia, in gran parte ambientata fra Palermo e Piana degli Albanesi, si svolge fra l’aprile e l’agosto 1980.
La missione che Stella deve compiere per conto del suo superiore - il colonnello Dalla Vita, già incontrato in Strage - è strettamente collegata alla seconda storia narrata, o meglio ricostruita tramite evocazioni liriche frammiste a ricostruzioni documentarie che emergono dal dialogo fra due personaggi, il Professore e il cantore cieco Omero. È la voce di quest’ultimo a dare al racconto della strage di Portella della Ginestra del 1° maggio 1947 - questo è l’episodio di criminalità pubblica che Macchiavelli affronta - le cadenze del mito, che trasforma quel fatto di cronaca in un evento che trascende il suo tempo e diventa momento esemplare della storia, anche futura, della nascente Repubblica Italiana. Un filo ininterrotto - non solo narrativo ma anche ideologico - congiunge quell’episodio all’esplosione bolognese dell’agosto 1980 e alle altre “stragi di stato”.
In copertina si trova un quadro di Renato Guttuso del 1949-50 intitolato Occupazione delle terre incolte in Sicilia. Sfogliando la gallery riincontreremo sia il pittore di Bagheria sia la tematica della sua opera, il conflitto per il possesso e lo sfruttamento dei terreni agricoli.
Loriano Macchiavelli, Noi che gridammo al vento, Torino, Einaudi, 2016.
Collocazione: 20. Q. 1560
Nelle biblioteche del Polo Bolognese il romanzo è disponibile anche in versione audiolibro e eBook.
Loriano Macchiavelli, Noi che gridammo al vento (2016)
La frase riportata nella quarta di copertina di Noi che gridammo al vento introduce un tema fondamentale di questo e degli altri “romanzi civili” di Macchiavelli che abbiamo citato in precedenza. All’interno della narrazione è il cantore Omero - che è diventato cieco proprio in seguito all’agguato di Portella della Ginestra, come se la perdita della vista fosse il prezzo da pagare per trovare la voce con cui raccontare - a sviluppare il concetto presente in questa breve frase. Il dialogo fra lui e il Professore è allo stesso tempo una dichiarazione d’intenti e un manifesto metodologico che l’autore mette in bocca a colui che lo rappresenta all’interno del testo:
«La memoria. Da giovane, quando viaggiavo, lessi una targa affissa sulla facciata di un teatro: “La tradizione è una materia da conservare viva e in evoluzione, altrimenti è qualcosa che non appartiene alla vita, ma alla memoria”. Non so chi fosse il G.C. che la firmava. So cosa intendeva: la memoria è morta. Rimane dentro di noi e negli archivi o nei segreti di Stato. Dobbiamo farla viaggiare perchè viva e allora diventa ricordo. La memoria conserva, il ricordo si fa racconto e diventa creatività. Questo io faccio. trasformo la memoria in racconto, che consegno ad altri raccomandando di tenerlo vivo. Solo così il racconto diventa pericoloso.
- Perchè?
Potrebbe svelare, Professore. Potrebbe togliere i veli, pulire la memoria per arrivare a chi esegue e a chi ordina. Io so. Siamo in tanti a sapere: Portella è stata la prova generale. Modalità, connivenze, despistaggi, sospetti, fango. Terrorismo e strategia della tensione» (p. 123-124).
Come spiega la nota che Macchiavelli appone al testo (il romanzo ha un breve apparato di 20 note), la frase citata da Macchiavelli si trova incisa su una «Lapide posta sulla facciata del teatro comunale di Corfù».
Loriano Macchiavelli, Noi che gridammo al vento, Torino, Einaudi, 2016.
Collocazione: 20. Q. 1560
Nelle biblioteche del Polo Bolognese il romanzo è disponibile anche in versione audiolibro e eBook.
I Capitoli delle colonie greco albanesi di Sicilia dei secoli XV e XVI
L’ambientazione principale del romanzo è Piana degli Albanesi, paese d’origine di Stella, che vi torna nel 1980, quando ha 39 anni, inviatavi dal colonnello Dalla Vita, suo responsabile nella struttura gerarchica dei Servizi segreti a cui appartiene. Stella, che da piccola veniva affettuosamente chiamata Nina, è stata portata via da Piana all’età di sei anni, in seguito alla morte dei genitori nell’eccidio di Portella della Ginestra. Non ricorda niente dei suoi primi anni di vita, ma il contatto con il paese e con alcuni dei suoi abitanti che l’hanno conosciuta bambina le permette un po’ alla volta di recuperare la memoria della propria infanzia. Con i ricordi di vita torna anche la memoria culturale legata ai luoghi, esemplificata lungo il romanzo dalla riacquisizione da parte di Stella-Nina della lingua arbëreshe, cioè la lingua parlata dagli “albanesi d’Italia”.
Piana infatti - che fino al 1941 si chiamava Piana dei Greci - è uno dei paesi fondati nella seconda metà del XV secolo dai profughi albanesi che sbarcarono sulle coste dell’Italia meridionale, fuggiti dalle loro terre d’origine a causa dell’invasione ottomana della penisola balcanica. Per una prima informazione sulla nascita del paese si può leggere l’articolo Piana degli Albanesi: la fondazione di Matteo Mandalà, in cui viene presentata anche la fotografia dei Capitoli che regolarono la fondazione della colonia e i suoi rapporti con le istituzioni siciliane.
Questi Capitoli, insieme a quelli di altri insediamenti arbëreshë in Sicilia, sono stati raccolti da Giuseppe La Mantia nel volume che vediamo in questa immagine. Potete leggere online i Capitoli di Piana, stipulati una prima volta il 30 agosto 1488 e più volte confermati nel corso dei secoli.
I Capitoli delle colonie greco-albanesi di Sicilia dei secoli XV e XVI, raccolti e pubblicati da Giuseppe La Mantia, Palermo, A. Giannitrapani, 1904.
Collocazione: BALDACCI E. 216
Giuseppe Bennici, Piana dei Greci (1875)
L’opuscolo di cui qui vediamo la copertina, datato 1875, ricostruisce la storia del territorio nel quale venne fondata Piana a partire dal XII secolo, quindi ben prima dell’arrivo dei profughi albanesi. Leggendo queste pagine ci si rende conto di come la divisione del territorio - e quindi il possesso del terreno - sia stato il motivo di conflitto ricorrente fra la colonia albanese e i paesi e le città vicine, in particolare Monreale.
Nel Novecento la lotta per il possesso dei terreni migliori per la coltivazione continua ad essere la ragione di uno scontro che si trasfoma in conflitto sociale - con le istanze dei contadini che si oppongono allo strapotere dei latifondisti - più che in una lotta fra le diverse amministrazioni. La stessa festa del Primo Maggio diventa spesso l’occasione per rivendicare il possesso e l’uso delle terre coltivabili da parte dello strato più povero della popolazione di Piana e dei paesi vicini. Una lotta che si incrocia con la storia criminale dell’isola, dal momento che le famiglie più importanti contro cui i contadini si battono sono spesso le stesse che stanno ai vertici dell’organizzazione mafiosa.
Macchiavelli lo esplicita nel Primo intermezzo del romanzo, quando in pagine che stanno fra il saggio e la rievocazione lirica indaga cause e conseguenze dei rapporti fra mafia e istituzioni:
«Questa è la storia di Portella, Professore. La mafia temeva di perdere le terre. Noi volevamo solo lavorarle, perchè le terre incolte sono una bestemmia contro la vita. Soprattutto se ci sono bambini che muoiono di fame» (p. 164).
[G. Bennici], Piana dei Greci nella circoscrizione del territorio di Monreale, Palermo, Gaudiano, 1875.
Collocazione: 6-Sc. Soc., Amministrazione, B. 02, 018
Emanuele Portal, Una colonia albanese in Sicilia (1916)
Se Piana degli Albanesi è una delle colonie più importanti fondate dai profughi albanesi in Sicilia, molte altre ne sorgono fra XV e XVI secolo. Di alcune di esse però è più difficile cogliere il legame con il paese d’origine. Vale per esempio per il paese di Biancavilla - in origine Callicari - nella provincia di Catania che al momento dell’uscita di questo breve articolo (1916) non era annoverata fra gli insediamenti arbëreshë dell’isola a causa della «sparizione d’ogni influenza albanese nei riti, nei costumi, nella lingua» (p. 3). L’autore Emanuele Portal orgogliosamente ricostruisce l’origine del paese, riscoprendone le tracce nello stemma, nella toponomastica, nei cognomi delle famiglie e in alcuni palazzi e monumenti.
Un dettaglio visibile in questa immagine, la dedica manoscritta che si trova sul frontespizio, ci offre uno spunto interessante: l’autore lo dona infatti «All’insigne scienziato prof. Baldacci».
Emanuele Portal, Una colonia albanese in Sicilia, Roma, Direzione della Nuova Antologia, 1916.
L’articolo è un estratto dalla «Nuova antologia».
Collocazione: BALDACCI D. 1498
Antonio Baldacci
Antonio Baldacci fu un importante cultore di studi etnografici e sociali, oltre che botanico e grande viaggiatore. I suoi interessi si indirizzarono in particolare alla penisola balcanica, Albania e Montenegro in primis. Nel 2001 i suoi eredi donarono alla Biblioteca dell’Archiginnasio sia la collezione libraria che i documenti archivistici a lui appartenuti.
Nel 2005 è stato pubblicato il volume Una passione balcanica tra affari, botanica e politica coloniale. Il fondo Antonio Baldacci nella Biblioteca dell'Archiginnasio di Bologna (1884-1950), a cura di Maria Grazia Bollini, che può essere letto integralmente online.
Nello stesso anno in Archiginnasio è stata allestita la mostra Una passione balcanica. Politica coloniale, affari e botanica tra la dissoluzione dell'impero ottomano e la seconda guerra mondiale. Il fondo Antonio Baldacci in mostra all'Archiginnasio, di cui è ora disponibile la versione online.
Ritratto di Antonio Baldacci, riproduzione fotografica di olio su tela, Roma, 1905.
Collocazione: Fondo Baldacci, b. 112, fasc. 8, n. 112/257
Antonio Baldacci, L'Albania (1929)
In una delle opere principali di Baldacci dedicate alla storia dell’Albania si trova un breve capitolo intitolato Le minoranze e le colonie albanesi, in cui viene analizzata la distribuzione dei discendenti degli emigrati dal paese balcanico non solo in Italia ma anche in altri stati, europei e non. Baldacci fornisce le cifre di persone di origine albanese presenti in diversi comuni dell’Italia meridionale al momento in cui il volume viene pubblicato, il 1929, quindi poco meno di 20 anni prima della strage di Portella. Possiamo notare che Piana dei Greci è di gran lunga il comune in cui c’è il più alto numero di abitanti parlanti un dialetto albanese, 8.447. Si tratta dell’84% della popolazione totale del comune. Ci sono anche comuni in cui la percentuale dei parlanti dialetti albanesi è del 100%.
La tabella riporta anche i dati di San Cipirello, un altro dei paesi - più volte citato in Noi che gridammo al vento - da cui si conveniva a Portella in occasione del Primo Maggio. Pur essendo molto vicino a Piana praticamente non registra nessuna rappresentanza di discendenti da emigrati albanesi.
Antonio Baldacci, L’Albania, Roma, Istituto per l?Europa orientale, [1929?].
Collocazione: BALDACCI B. 31
Giuseppe Cocchiara, Lembi di Albania in Sicilia (1927)
Ancora un articolo, estratto questa volta da «La lettura», che racconta non solo la storia ma anche alcune tradizioni di Piana degli Albanesi che ancora si conservano in paese nei primi decenni del Ventesimo secolo.
In una delle fotografie che corredano l’articolo si vede la fontana del paese, la stessa a cui Stella veniva mandata per attingere l’acqua e in cui la madre lavava i panni in uno dei primi episodi dell’infanzia ricordati dalla donna. Quando Stella, passeggiando per Piana insieme a Eva la mattina seguente al suo arrivo in Sicilia, vede un bambino che riempie bottiglie di plastica, nella sua mente riemerge quanto aveva cancellato:
«La parte antica e alta del paese si concludeva su una muraglia di contenimento che poggiava sulla roccia, quasi ne fosse il proseguimento fuori terra. Dalla sommità scendevano a decorarla e coprirla in parte piante di fico e ginestre. Appoggiata alla muraglia, una grande fontana il cui getto, abbondante e continuo, metteva attorno una sensazione di frescura.
A quel getto, un ragazzino di sette, otto anni riempiva bottiglie di plastica che poi sistemava in due cestelli.
Stella si fermò a guardare e l’immagine le mutò davanti agli occhi. Non più il ragazzino, ma una bambina con accanto la madre che lavava i panni. Sotto il getto, un secchio di zinco dal quale tracimava l’acqua» (p. 46).
L’immagine della fontana torna più volte nel romanzo, sempre a sottolineare momenti in cui Stella compie un passo decisivo verso la riscoperta di quel mondo i cui abitanti ancora la chiamano Nina, come quando aveva sei anni.
[Giuseppe Cocchiara], Lembi di Albania in Sicilia, [Milano], [s.n.], [1927].
Articolo estratto da «La lettura».
Collocazione: MORARA M. 64 n. 20
Rosolino Petrotta, Arbëresht në Siqeli (1941)
Rosolino Petrotta, nato a Piana nel 1894, è stato uno dei più importanti studiosi di etnia arbëreshë, impegnato per tutta la vita a difendere le tradizioni portate in Italia dai profughi albanesi.
Anche in questo documento ci sono fotografie interessanti e significative per i lettori di Noi che gridammo al vento. È possibile vederne una selezione online, mentre noi ci soffermeremo solamente su due di esse.
Rosolino Petrotta, Arbëreshë në Siqueli, Tirane, Botim i ministris s'arsimit, 1941.
Collocazione: BALDACCI A. 448
Rosolino Petrotta, Arbëresht në Siqeli (1941)
LA SS. VERGINE ODIGITRIA
(Icona portata dall’Albania dai fondatori di Piana dei Greci)
Nel già citato articolo Piana degli Albanesi: la fondazione Matteo Mandalà scrive:
«Gli albanesi, stabilitisi in un primo tempo ai piedi del monte Pizzuta, a causa dei rigori invernali decisero di scendere più a valle e così il paese venne edificato alle falde di una collinetta (Sheshi), che dominava un’estesa area pianeggiante dalla quale, con molte probabilità, derivò il suo nome: Plana Archiepiscopatus Montis Regalis, in seguito Piana dell’Arcivescovo, poi Piana dei Greci, e, infine, Piana degli Albanesi. Secondo la tradizione popolare, il luogo sarebbe stato indicato da un prodigio compiuto dalla Madonna dell’Itria della quale i profughi avevano portato una preziosa immagine dall’Albania».
Rosolino Petrotta, Arbëreshë në Siqueli, Tirane, Botim i ministris s'arsimit, 1941.
Collocazione: BALDACCI A. 448
Rosolino Petrotta, Arbëresht në Siqeli (1941)
Costumi di Piana dei Greci: UNA SPOSA
(Palermo 29 settembre 1929)
La sposa ritratta nella foto col costume tradizionale ricorda la figura di Eva, che accoglie Stella al suo arrivo a Piana e la accompagna nel processo di riscoperta delle proprie origini, pur essendo dubbiosa riguardo alle reali motivazioni del ritorno della ragazza. Eva, di origine milanese, è giunta in Sicilia appena diciottenne proprio per sposare un ricco possidente di Piana, ambientandosi da subito fra i nuovi compaesani nonostante la distanza sociale e culturale. Nel romanzo ha anche un’importante funzione di documentazione degli eventi del passato e di una cultura che sta scomparendo, grazie alla sua passione per la fotografia. Le immagini scattate dalla donna risulteranno fondamentali per Stella e il suo percorso di recupero delle memorie dell’infanzia.
Nel già citato articolo di Giuseppe Cocchiara Lembi di Albania in Sicilia vengono ricordate le tradizioni del rito matrimoniale tipiche di Piana.
Rosolino Petrotta, Arbëreshë në Siqueli, Tirane, Botim i ministris s'arsimit, 1941.
Collocazione: BALDACCI A. 448
Leonardo Cuidera, Vivai criminali in Sicilia (1903)
In più punti del testo Macchiavelli sostiene la necessità di indagare e conoscere le origini dei fenomeni criminali, in particolare di mafia e banditismo in quanto strettamente legati al territorio di cui sta raccontando e all’evento su cui si impernia tutto il racconto, l’eccidio di Portella della Ginestra.
Già nel 1903 Leonardo Cuidera si prefiggeva uguale scopo in questo libro che elegge Castellamare del Golfo a caso di studio di come la delinquenza possa nascere e attecchire in uno specifico territorio. Si leggano indice e prefazione per cogliere lo spirito del discorso, che arriva ad additare come male endemico - in quanto derivante dalla struttura sociale - e nutrimento primario per la crescita della pianta criminale «la vita parassita e da trivio della nobiltà decaduta, [...] l’educazione gesuita della famiglia ricca, [...] la corruzione politica».
Leonardo Cuidera, Vivai criminali in Sicilia. Vol. 1: Castellamare del golfo, Palermo, Giornale di Sicilia, 1903.
Collocazione: 6. G*. V. 57
Cesare Mori, Con la mafia ai ferri corti (1932)
Nell’impossibilità di fornire una pur minima rassegna delle pubblicazioni che si sono occupate di tracciare un profilo dell’organizzazione mafiosa e di raccontarne i rapporti con le istituzioni, selezioniamo solamente questo volume del 1932, per due motivi. In primis perché affronta in maniera diretta proprio la situazione di Piana degli Albanesi, offrendo anche qualche bella immagine. Inoltre perché si colloca nel pieno del ventennio fascista, quindi ci permette di cogliere il quadro dei rapporti Stato-mafia negli anni precedenti la strage di Portella. Più corretto sarebbe però dire che il testo ci permette di capire come il fascismo desiderava promuovere la propria inflessibilità nel punire le organizzazioni criminali, al di là dei reali risultati ottenuti. A rileggere oggi queste pagine infatti è impossibile non sorridere amaramente di fronte ai toni trionfalistici che emergono dalle didascalie di alcune delle immagini che vedremo di seguito.
Cesare Mori, Con la mafia ai ferri corti, Verona, A. Mondadori, 1932.
Collocazione: 34. C. 3277
Cesare Mori, Con la mafia ai ferri corti (1932)
Autore e protagonista indiscusso del libro è il “prefetto di ferro” Cesare Mori, inviato in Sicilia da Mussolini in persona per contrastare, anzi estirpare alla radice il fenomeno mafioso. Lo abbiamo già visto nella foto a fianco del frontespizio nell’immagine precedente. Qui compare a fianco delle autorità religiose di Piana «dopo l’azione contro la mafia», come recita la didascalia.
Cesare Mori, Con la mafia ai ferri corti, Verona, A. Mondadori, 1932.
Collocazione: 34. C. 3277
Cesare Mori, Con la mafia ai ferri corti (1932)
L’azione del prefetto evocata nell’immagine precedente è stata naturalmente trionfale e decisiva. Lo testimoniano questa fotografia e la didascalia che la accompagna, che racconta del giubilo con cui gli abitanti di Piana - e nello specifico le donne, che in onore di Mori hanno indossato i migliori abiti della tradizione arbëreshë - festeggiano la liberazione dalla mafia.
Cesare Mori, Con la mafia ai ferri corti, Verona, A. Mondadori, 1932.
Collocazione: 34. C. 3277
Cesare Mori, Con la mafia ai ferri corti (1932)
Anche in questo caso la didascalia rende alla perfezione i toni trionfalistici del volume. Che la mafia non sia stata affatto sconfitta da Mori è sotto gli occhi di tutti. Noi che gridammo al vento ci racconta che anche negli anni successivi al fascismo le istituzioni - questa volta democratiche - hanno spesso fatto mostra di utilizzare il pugno di ferro contro la criminalità quando invece, in segreto, ne ricercavano la complicità e l’appoggio.
Cesare Mori, Con la mafia ai ferri corti, Verona, A. Mondadori, 1932.
Collocazione: 34. C. 3277
Cesare Mori, Con la mafia ai ferri corti (1932)
Abbiamo già detto in precedenza come il cuore del conflitto sociale - e di quello fra gli onesti cittadini e la criminalità - a Piana e nei territori circostanti consistesse nel possesso e nella possibilità di coltivare la terra. Non è un caso che Mori suggelli la propria impresa di liberazione facendosi ritrarre al volante di una trattrice per la trebbiatura del grano.
Cesare Mori, Con la mafia ai ferri corti, Verona, A. Mondadori, 1932.
Collocazione: 34. C. 3277
Renato Marsilio, I fasci siciliani (1954)
Prima di arrivare alla festa del Primo Maggio vale la pena ricordare il movimento di ispirazione socialista e democratica dei Fasci Siciliani, che dal 1889 al 1894 circa (anche se già da tempo esisteva in forma non ufficiale) guidò e sostenne minatori, operai e contadini nelle loro rivendicazioni per migliori condizioni di lavoro e una più equa distribuzione delle terre coltivabili, come già visto tema centrale nel conflitto sociale dell’isola. Il movimento, dopo avere ottenuto importanti vittorie a seguito di una dura campagna di scioperi che portarono alla caduta del governo Giolitti, fu sconfitto da un violento intervento repressivo promosso dal nuono Primo Ministro, Francesco Crispi, che fra l’altro era di origine arbëreshë.
I dirigenti del movimento continuarono il loro lavoro nei decenni seguenti e le lotte promosse dal movimento dei Fasci Siciliani furono di ispirazione per tutte le rivendicazioni sindacali successive, come dimostra questa pubblicazione realizzata dal quotidiano socialista «Avanti!» nel 1954 e inserita nella collana Storia del movimento operaio.
Renato Marsilio, I fasci siciliani, Milano-Roma, Avanti!, 1954.
Collocazione: 6. TT*. IV. 36
Il gonfalone di Piana degli Albanesi
Piana dei Greci ebbe un ruolo molto importante all’interno del movimento dei Fasci Siciliani. In questa immagine vediamo il gonfalone del paese che veniva portato in corteo durante le manifestazioni e gli scioperi di quegli anni.
Renato Marsilio, I fasci siciliani, Milano-Roma, Avanti!, 1954.
Collocazione: 6. TT*. IV. 36
Nicola Barbato (Kola Birbati)
Uno dei fondatori e dirigenti dei Fasci siciliani fu Nicola Barbato, nato a Piana nel 1856 e il cui nome in albanese era Kola Birbati. In Noi che gridammo al vento viene citato spesso il “sasso di Barbato”, cioè la pietra che Barbato usava come podio per tenere i propri comizi a Portella della Ginestra in occasione della Festa del Lavoro. Fu proprio lui a inaugurare la tradizione di riunire a Portella il 1° maggio i cittadini dei paesi circostanti.
In questa immagine (qui visibile a una migliore risoluzione) Barbato è il secondo da sinistra, all’interno della gabbia in cui erano chiusi i dirigenti dei Fasci siciliani durante il processo di Palermo in cui vennero condannati. Barbato ricevette una pena di 12 anni di carcere, ma come gli altri imputati beneficiò di un’amnistia nel 1896.
Salvatore Francesco Romano, Storia dei Fasci siciliani, Bari, Laterza, 1959.
Collocazione: 5. B. IV. 101
«La Rivendicazione», 10 maggio 1890
L’ufficializzazione del 1° maggio come data per la Festa internazionale dei lavoratori avvenne a Parigi nel 1889, durante la Seconda internazionale. Il periodico che qui vediamo, datato 10 maggio 1890, presenta quindi a partire da p. 2 (il fascicolo può essere letto integralmente online) il resoconto della prima Festa del lavoro celebrata nel nostro paese.
«La Rivendicazione. Giornale economico-politico-sociale», 10 maggio 1890.
Collocazione: FABBRI 159
I martiri di Chicago
In un numero unico pubblicato in italiano a Parigi nel 1923 a cura del Comitato Anarchico Pro Vittime Politiche - e quindi destinato a raccogliere fondi a beneficio di chi era perseguitato per le proprie idee in fatto di politica - viene ricordato il motivo per cui la data del 1° maggio era stata scelta come giorno celebrativo della Festa dei lavoratori.
Come ricorda l’articolo I martiri di Chicago, il 1° maggio 1886 nella capitale dell’Illinois venne indetto un grande sciopero per chiedere l’estensione a tutti gli Stati Uniti d’America della giornata lavorativa di otto ore, in vigore solamente in quello stato. L’intervento armato della polizia causò due morti. Le manifestazioni di protesta si estesero a tutta la città nei giorni successivi, culminando nel violento scontro di Haymarket Square: in seguito alla morte di sei poliziotti causata da una bomba, un numero mai precisato di manifestanti venne ucciso dalle forze dell’ordine.
L’episodio non suona nuovo alle orecchie dei partecipanti al Gruppo di Lettura che hanno seguito gli incontri dello scorso anno. Valerio Evangelisti infatti lo rievoca in One Big Union, primo volume della Trilogia americana. Avevamo citato questi eventi anche nella gallery dedicata a questo romanzo.
«Primo maggio», a cura del Comitato anarchico pro vittime politiche, Paris, 1923.
Collocazione: Fondo Fabbri, n. 44.
«l'Unità», 1 maggio 1947
Naturalmente anche il 1° maggio 1947 i quotidiani escono con titoli che celebrano la Festa dei lavoratori, in particolare quelli che sono espressione dei partiti politici più vicini alla classe operaia.
«l'Unità» pubblica due articoli per noi interessanti, che vediamo in questa immagine (potete leggere qui gli articoli a una migliore risoluzione; qui l’intera pagina in cui si trovano).
Il primo articolo, Il Primo Maggio è nato così, ricorda le origini della Festa e i motivi per cui si tiene in questa data, ricostruendo gli eventi di Chicago che abbiamo appena ricordato. Il secondo articolo invece, Tutta la polizia alla caccia del “Galletto”, ci ricorda che la festività durante il ventennio fascista, a partire dal 1924, era stata abolita e sostituita dalla celebrazione del Natale di Roma il 21 aprile. Nell’immediato dopoguerra quindi la ripresa dei festeggiamenti del 1° maggio - e quindi della salita a Portella per gli abitanti di Piana - acquista particolare importanza perché diventa anche un simbolo della liberazione dalla dittatura. L’organo del PCI sceglie di ricordare l’oscurità degli anni del fascismo con una sorta di sberleffo, rievocando il giornale satirico - naturalmente clandestino - «Il Galletto rosso», il cui terzo numero era uscito esattamente 20 anni prima, il 1° maggio 1927. La didascalia all’immagine che correda l’articolo recita:
«Il Galletto rosso, cui la polizia fascista diede una caccia spietata, era un giornaletto in gran parte umoristico compilato clandestinamente da giovani comunisti. Uscì il 1° Maggio 1927 e fu diffuso tra gli operai. Ridere un po’ faceva bene, specialmente allora».
Come il riferimento ai martiri di Chicago, anche il “galletto rosso” ci riporta alla memoria letture fatte lo scorso anno seguendo le tracce delle lotte sindacali nella trilogia Il Sole dell’Avvenire di Valerio Evangelisti. Il “galletto rosso” infatti era la forma di lotta bracciantile che spesso si accompagnava agli scioperi più duri e che consisteva nell’appiccare il fuoco ai fienili e ai pagliai dei ricchi possidenti. Una forma di sabotaggio che si aggiungeva ad altre manifestazioni violente, messa in pratica dall’ala più rivoluzionaria delle organizzazioni sindacali, spesso in conflitto con i movimenti più riformisti.
Evangelisti intitola proprio Il Galletto Rosso. Precariato e conflitto di classe in Emilia Romagna. 1880-1980 il libro che pubblica insieme a Salvatore Sechi nel 1982 e che poi riproporrà col titolo Il Gallo Rosso nel 2014 (per i dettagli su questa opera si veda la gallery dedicata a Il Sole dell’Avvenire).
«l’Unità», 1 maggio 1947.
Collocazione: 19/16
«l'Unità», 3 maggio 1947
Il tono di festa e di scherzosa rivalsa contro la repressione della libertà di stampa imposta dal fascismo è completamente dimenticato nel primo numero de «l'Unità» uscito dopo la strage di Portella, che è naturalmente la notizia principale della prima pagina del 3 maggio 1947.
Il titolo dell’articolo di fondo, Imboscata fascista, dichiara senza mezzi termini la matrice dell’attentato. Il fatto che le indagini identificheranno poi nella banda di Salvatore Giuliano gli esecutori materiali della strage non inficia l’ipotesi proposta nell’articolo. Noi che gridammo al vento, in particolare nel capitolo Primo intermezzo che riserva sorprese al lettore. Forse amare, sostiene apertamente il coinvolgimento delle organizzazioni della destra sopravvissute alla fine del regime mussoliniano. Macchiavelli ipotizza non solo la matrice politica dell’attentato - che Giuliano e i suoi uomini abbiano agito su richiesta di uomini politici è fortemente probabile anche se non dimostrato in sede giuridica - ma che parte di coloro che spararono sulla folla a Portella fossero esponenti della destra fascista. Il bandito sarebbe stato quindi, secondo questa versione che nel romanzo viene sostenuta da Omero, il perfetto capro espiatorio - naturalmente non innocente - a cui addossare completamente la colpa in sede penale:
«Infine chi avrebbe sparato Omero?
I fascisti della Decima Mas, Professore. Quelli che, guidati da Junio Valerio Scipione Ghezzo Marcantonio Maria dei principi Borghese, ventitre anni dopo Portella, avrebbero tentato un colpo di Stato» (p. 159).
La prima pagina del quotidiano cita anche il drammatico intervento all’Assemblea Costituente del deputato Girolamo Li Causi (che de «l'Unità» era stato anche direttore), l’uomo politico più impegnato nella ricerca della verità sulla strage di Portella.
«l’Unità», 3 maggio 1947.
Collocazione: 19/16
«l'Unità», 9 maggio 1947
L’articolo Da Piana dei Greci nessuno doveva tornare, pubblicato su «l'Unità» del 9 maggio, presenta le prime testimonianze oculari dell’eccidio, rese da alcune persone che per caso si erano trovare ad incrociare il commando di fuoco che, stando a quanto scritto in queste colonne, avrebbe avuto lo scopo di lasciare sul campo molte più vittime delle 11 che alla fine si contarono sulla spianata di Portella.
Macchiavelli si è senza dubbio avvalso di testimonianze come quelle qui riportate, inserendole in vari punti del romanzo come prova a supporto delle tesi esposte da Omero al Professore. Si veda, ad esempio, il «racconto del pastore che li ha visti festeggiare la triste mattanza» a p. 160. Queste testimonianze si aggiungono ai racconti dei personaggi principali che erano a Portella il 1° maggio 1947, come Eva, Ditria o Vittorio.
«l’Unità», 9 maggio 1947.
Collocazione: 19/16
Portella della Ginestra 1947-1997: tra storia e memoria (1997)
Il libro di cui qui riportiamo la copertina è stato senza dubbio un documento importante per Macchiavelli. Realizzato in occasione di una mostra tenutasi a Piana degli Albanesi per celebrare il cinquantenario dell’eccidio, riporta alcune fotografie scattate immediatamente dopo l’evento. La stessa foto che si vede in copertina ricorda i molti passi del romanzo in cui viene evocata la salita a Portella a dorso di asino che era il prologo festoso alle celebrazioni del 1° maggio.
Portella della Ginestra 1947-1997: tra storia e memoria, catalogo a cura di Filippo Guttuso... [et al.] della mostra tenuta a Piana degli Albanesi nel 1997, Palermo, Cittá di Palermo, 1997.
Collocazione: 20. X. 1434
Portella della Ginestra 1947-1997: tra storia e memoria (1997)
Abbiamo già avuto modo di ricordare il ruolo fondamentale che ricopre Eva nell’aiutare Stella a riscoprire le proprie origini pianesi. Il ricordo più doloroso da portare a galla è sicuramente quello del giorno della strage, vissuto da Stella a fianco dei genitori che muoiono in quella occasione. Lo strumento con cui Eva suscita le memorie della ragazza sono le fotografie che lei stessa ha scattato. Fra queste ci sono quelle prese immediatamente dopo che le raffiche di mitra sono cessate. La stessa Eva non riesce a capacitarsi di come in quel frangente sia riuscita a dedicarsi a quell’operazione di documentazione, che ora acquisisce un valore emotivo fondamentale per la crescita di Stella.
Vediamo qui e nelle immagini successive come Macchiavelli stia descrivendo proprio le fotografie messe in mostra nel 1997 e presenti nel catalogo citato in precedenza.
«Stella guardò la foto. Una donna urlava il proprio dolore, stretta in un gruppo di altre donne in nero che la sorreggevano. Nel grumo scuro la donna era una macchia chiara. Nella corsa verso un figlio o il marito o la madre, morti o feriti, le era forse caduto dal capo lo scialle che l’aveva coperta fino alla cintura. Macchie scure aveva sulla camicia bianca. Ed era sangue» (p. 176-177).
Portella della Ginestra 1947-1997: tra storia e memoria, catalogo a cura di Filippo Guttuso... [et al.] della mostra tenuta a Piana degli Albanesi nel 1997, Palermo, Cittá di Palermo, 1997.
Collocazione: 20. X. 1434
Portella della Ginestra 1947-1997: tra storia e memoria (1997)
«Eva le mise davanti un’altra foto: tre donne, sempre in nero. Una in primo piano, tagliata e di spalle. Le altre due, più lontane dall’obiettivo. Una ritta, la destra posata sul capo della compagna di sventura, china ai suoi piedi. Piangente. Una Pietà inventata dalla macchina fotografica» (p. 177).
Portella della Ginestra 1947-1997: tra storia e memoria, catalogo a cura di Filippo Guttuso... [et al.] della mostra tenuta a Piana degli Albanesi nel 1997, Palermo, Cittá di Palermo, 1997.
Collocazione: 20. X. 1434
Portella della Ginestra 1947-1997: tra storia e memoria (1997)
«Dieci, dodici anni, la guancia sinistra appoggiata alla terra, era il ragazzo della terza foto. Il berretto accanto al viso, il braccio destro ripiegato sotto il corpo. Gli facevano da sudario il grigio della terra e dei cespugli e dei sassi» (p. 177).
Portella della Ginestra 1947-1997: tra storia e memoria, catalogo a cura di Filippo Guttuso... [et al.] della mostra tenuta a Piana degli Albanesi nel 1997, Palermo, Cittá di Palermo, 1997.
Collocazione: 20. X. 1434
Portella della Ginestra 1947-1997: tra storia e memoria (1997)
«Due corpi di adulti, sempre schiacciati nel mondo della morte e sempre a faccia in giù, come li avevano colpiti i proiettili dei mitra, stavano nella quarta [fotografia]» (p. 177).
Portella della Ginestra 1947-1997: tra storia e memoria, catalogo a cura di Filippo Guttuso... [et al.] della mostra tenuta a Piana degli Albanesi nel 1997, Palermo, Cittá di Palermo, 1997.
Collocazione: 20. X. 1434
Portella della Ginestra 1947-1997: tra storia e memoria (1997)
«Nella quinta foto, la bocca spalancata nell’urlo di dolore di una donna, circondata da altre, con in braccio il fagotto di una figlia. O di un figlio. Lunghi capelli neri scarmigliati sulle spalle e sul viso. Altra immagine della tragedia» (p. 177).
Portella della Ginestra 1947-1997: tra storia e memoria, catalogo a cura di Filippo Guttuso... [et al.] della mostra tenuta a Piana degli Albanesi nel 1997, Palermo, Cittá di Palermo, 1997.
Collocazione: 20. X. 1434
Portella della Ginestra 1947-1997: tra storia e memoria (1997)
Il catalogo della mostra del 1997, pur poco utile e confusionario sul piano testuale, offre una documentazione fotografica molto ricca e interessante, che è impossibile osservare in maniera esaustiva in questa occasione. Vi invitiamo caldamente ad approfondire consultando il volume. Oltre alle immagini del tragico giorno della strage e a quelle del ritorno a Portella negli anni successivi, si trovano numerosi ritratti di coloro che le indagini - culminate nel processo di Viterbo del 1952, della cui sentenza Macchiavelli riporta ampi stralci - hanno identificato come gli esecutori della strage, il gruppo di fuoco guidato di Salvatore “Turiddu” Giuliano, il più famoso bandito della storia italiana contemporanea. Oltre che al capo-banda viene dato giusto risalto al suo compare Gaspare Pisciotta, che lo tradirà e ucciderà, per poi finire lui stesso giustiziato in carcere con un caffè avvelenato.
Un’altra serie di immagini presenta invece le pagine dei quotidiani e dei settimanali dell’epoca, anche stranieri, naturalmente prontissimi a gettarsi non solo sulla cronaca dell’evento criminale ma anche sulle successive vicende giudiziarie (anch’esse mescolate ad altri episodi criminali, come appena rilevato relativamente al doppio delitto Giuliano-Pisciotta). Fra le molte immagini proponiamo solo quella dell’articolo Le due lettere del bandito Giuliano, pubblicato da «Paese Sera» nel numero del 26-27 novembre 1960 (qui visibile a una migliore risoluzione), in cui per la prima volta sono rese pubbliche le presunte lettere inviate da Giuliano negli Stati Uniti e in cui sarebbe contenuta la verità sulla strage di Portella. Su questo materiale - e altri documenti misteriosi e introvabili come un memoriale di mano dello stesso bandito e alcune pagine di un diario - si impernia tutta la vicenda più recente di Noi che gridammo al vento. George ’u miricanu infatti è giunto in Sicilia proprio per trattare con mafia e Stato italiano la consegna di parte di questo materiale e la stessa Stella è stata inviata a Piana per intercettarlo e impedire che le trattative vadano in porto. Un perfetto scenario per una vicenda di spionaggio che va a scavare temi e misteri che tornano a riproporsi dal 1947 al 1980 ma che inevitabilmente interrogano anche la contemporaneità di noi lettori.
Portella della Ginestra 1947-1997: tra storia e memoria, catalogo a cura di Filippo Guttuso... [et al.] della mostra tenuta a Piana degli Albanesi nel 1997, Palermo, Cittá di Palermo, 1997.
Collocazione: 20. X. 1434
Ignazio Buttitta e il racconto di Portella
Chiudiamo il nostro viaggio nel romanzo ricordando che l’episodio di Portella della Ginestra - come già avevamo avuto modo di rilevare per lo scoppio della bomba alla stazione di Bologna, che chiude Noi che gridammo al vento saldandolo a Strage - ha generato anche una produzione non saggistica ma artistica. L’opera forse più famosa è Portella della Ginestra, il quadro che all’evento ha dedicato Renato Guttuso, già citato parlando della copertina del romanzo.
Sul piano letterario invece particolare interesse per Portella è stato mostrato da Ignazio Buttitta, cantastorie del mondo popolare siciliano.
Vediamo in questa immagine la copertina di un volume che raccoglie diverse opere di Buttitta, accompagnata da una pagina in cui si trova una sua dedica manoscritta. Fra i vari scritti raccolti in questa pubblicazione troviamo anche il poema La vera storia di Salvatore Giuliano (o, come scritto all’interno, La vera storia di Giulianu). Il settimo episodio di questa biografia in versi dialettali - proposti con traduzione italiana a fronte e impreziosito da una Introduzione polemica di Leonardo Sciascia - ha per titolo La straggi di Purtedda di la Jnestra.
La strofa 30 recita:
Pi discriviri dda straggi
ci vulissi un rumanzeri:
sta chitarra un sapi chianciri,
malidittu stu misteri!
Con Loriano Macchiavelli la speranza di Buttitta si è avverata. E forse nessun rumanzeri meglio di lui poteva farsi carico di narrare la strage di Portella della Ginestra.
Ignazio Buttitta, Lu trenu di lu suli. Il treno del sole: storie canti di protesta canzoni in dialetto siciliano con traduzione a fronte ; La vera storia di Salvatore Giuliano, Milano, Edizioni Avanti!, 1963.
Collocaizone: ANCESCHI D, 32, 82
Roberto Roversi
Abbiamo già ricordato che le pagine finali di Noi che gridammo al vento si svolgono a Bologna il 2 agosto 1980, saldando il romanzo del 2016 a quello uscito in prima edizione nel 1990. La chiusura del cerchio è sottolineata dalla ripresa in queste pagine della poesia Notizia di Roberto Roversi, che Macchiavelli già aveva collocato in esergo a Strage. Anche la narrazione dello scoppio della bomba riprende lo stesso schema del “conto alla rovescia” inaugurato da Roversi e riproposto nel romanzo sull’attentato.
Nella gallery dedicata a quest’ultimo non abbiamo rilevato gli stretti legami esistenti fra l’Archiginnasio e Roberto Roversi. Parte del fondo librario proveniente dalla Libreria Palmaverde infatti fa parte delle collezioni della biblioteca, che ha organizzato più di una iniziativa in ricordo del poeta bolognese. In questa immagine il manifesto promozionale di una delle più importanti fra queste iniziative, la mostra LIBRI. Fogli che bruciano. Le edizioni della Libreria Antiquaria Palmaverde di Roberto Roversi, 1948-2005, tenutasi dal 2 febbraio al 19 marzo 2011 in biblioteca e di cui è ora disponibile una versione online.