Il Cerchio di gesso

FUORI DAL CERCHIO
di Michele Righini - Biblioteca dell'Archiginnasio

Quando Gianni Scalia sul finire del 1976, stimolato da giovani amici bolognesi e intenzionato a coinvolgere nell'iniziativa alcuni sodali milanesi, iniziò a progettare la creazione di una nuova rivista, non pensava a «Il cerchio di gesso». Non perché quel titolo fosse in quel momento inconcepibile, ma perché ben diversa era l'idea di rivista a cui si accingeva a lavorare, che doveva essere, nelle sue intenzioni, ben poco legata «all'attualità e alla dimensione locale […] una rivista da non più di trecento copie […] esclusiva per il livello del dibattito teorico che avrebbe dovuto contenere» [ Pullega 2017]. Rende precisa testimonianza di ciò l'editoriale d'apertura del primo numero de «Il cerchio di gesso», in cui lo stesso Scalia paradossalmente sottolinea come si fosse passati nel breve volgere di qualche mese dalla impossibilità di fondare una rivista in cui potessero confluire le molte anime e le molte diversità del gruppo di interlocutori del momento, alla impossibilità di non fondarla: «non possiamo fare altro che una rivista - e la facciamo», dice Scalia in conclusione di questo intervento [ Scalia 1977 , p. 7]. La motivazione di così rapidi rivolgimenti di intenzioni e progetti è naturalmente da ricercare in quello che successe nei primi sei mesi del 1977 (il primo numero della rivista esce infatti in giugno) e in particolare nei "fatti del marzo", bolognese e non solo. Mutò il pubblico a cui rivolgersi - dalle trecento copie "auspicate" da Scalia si passò a una tiratura di qualche migliaia - si accrebbe l'attenzione all'attualità e alla dimensione locale, si ampliò la gamma delle voci da coinvolgere e proporre. Tutto ciò però senza che il progetto originario venisse del tutto stravolto e abbandonato, aggiungendo piuttosto ad esso elementi prima non contemplati, arricchendo la trama di fili di diverso colore e tessuto. Fu proprio questa mutazione avvenuta durante la preparazione del primo numero che diede a «Il cerchio di gesso» quel carattere di originalità che lo pose a cavallo di diverse esperienze senza che si potesse esaurire in una sola di esse, non esclusivamente rivista di riflessione teorico-politica e non semplicemente organo di espressione del Movimento. Un oggetto ibrido, la cui polifonia scaturisce in maniera naturale dalla eterogeneità del gruppo dei redattori, tema di fondo dello stesso editoriale di apertura di Scalia, che coglieva con lungimiranza questo carattere di originalità che avrebbe accompagnato la vita della rivista, che supererà la limitata cronologia dei "fatti del '77" ponendosi per i due anni successivi (l'ultimo numero è datato novembre 1979) come luogo di discussione vitale su questioni, problemi e avvenimenti fra i più importanti di quella fine di decennio. Forse questa capacità di attingere a più mondi, senza sclerotizzazioni e limitazioni, ha anche portato alcuni degli studiosi della produzione culturale del Movimento a "dimenticare" la rivista, a non porle la dovuta attenzione, in quanto radicalmente diversa dai molti fogli periodici, più o meno durevoli, che in quei mesi vennero prodotti. Riproporla ora, rendendola accessibile a tutti, è quindi un'operazione che ci sembra importante per aggiungere un tassello spesso, se non dimenticato, trascurato alla riflessione e all'analisi di quei tre anni cruciali per la storia italiana. Concordando in ciò con una delle indicazioni fornite da Franco "Bifo" Berardi - in un suo scritto di ormai 16 anni fa ma che forse non è stato sufficientemente ascoltato - su come si debba "leggere" il '77. La necessità cioè di inquadrare quegli eventi in un contesto più ampio, di respiro internazionale, di non limitarsi a «sfogliare l'album italiano» perché «solo a partire da questa complessità potremo capire che cosa accadde effettivamente [...]» [Berardi 2002, p. 20], proposito che «Il cerchio di gesso» tenne sempre come punto fermo, confermando le originarie intenzioni di Scalia di mantenere quell'ampiezza dello sguardo che superasse la limitata dimensione locale.

Ma se compito dei lettori, vecchi e nuovi, della rivista sarà quello di comprendere l'apporto che essa diede alla riflessione di quegli anni, l'intenzione di questo breve scritto è piuttosto quella di fornire alcuni elementi per capire quale fu il suo posizionamento nel panorama culturale di quegli anni, utilizzando per questo percorso alcuni dati ed elementi che più che ai contenuti attengono ad aspetti "laterali", della concretezza materiale, del paratesto, di alcune scelte editoriali quando non tipografiche, fino a piccoli dettagli bibliografici che possono sfuggire a un occhio non allenato ma che attengono a quella sorta di "strabismo" con cui un bibliotecario si pone sempre di fronte a un oggetto culturale, con un occhio al contenuto e uno alla forma. La scelta di digitalizzare la rivista nella sua interezza e, ancor più, nella sua forma originale acquista così maggiore valore in quanto permette di cogliere e amplificare - grazie anche all'apparato di commento che abbiamo deciso di porle a fianco, inserendo questo lavoro all'interno delle infinite potenzialità della Rete - elementi impossibili da rilevare da una semplice trascrizione dei testi. Rimarremo dunque, come da intenzione espressa nel titolo e fatte salve alcune eccezioni, "fuori dal Cerchio", osservandone i confini e le soglie, lasciando ad altri il piacere di una esplorazione più minuta delle pagine interne.

Più che dal semplice titolo della testata vale la pena partire dalla combinazione fra il titolo e l'immagine che viene ossessivamente ripetuta sulla copertina di tutti i fascicoli, con variazioni di colore e di ampiezza dell'inquadratura che in un caso, sul numero terzo del maggio '78 , tendono proprio a mettere in risalto la ripetizione quasi da incubo dell'immagine. Il riferimento immediato di titolo e immagine, è superfluo dirlo, è ai circoletti di gesso che contornano le pallottole sparate la mattina dell'11 marzo e che hanno scalfito il muro di via Mascarella e ucciso lo studente di medicina e militante di Lotta Continua Francesco Lorusso (per una ricostruzione degli eventi di quei giorni di marzo e delle indagini sull'omicidio si veda il puntuale e documentato studio di Franca Menneas, Omicidio Francesco Lorusso, edito da Pendragon nel 2015). Nel mese di giugno quell'immagine è ormai diventata familiare ai bolognesi, perché sui giornali si è spesso parlato di quei cerchi e di quel muro che - insieme al luogo in cui Lorusso è caduto per non rialzarsi mai più, al civico 37 di via Mascarella, dove già il 26 aprile viene scoperta una targa in suo ricordo [Venturoli 2009, p. 262] - si è presto trasformato in un monumento alla memoria, preservato fin dal primo momento dai compagni del giovane. Ma nell'immagine scelta dai redattori per la copertina compaiono anche dei numeri, ugualmente tracciati col gesso, un 7 e un 8. Oggi quei numeri sono in gran parte scomparsi, ma un'idea di quale fosse l'aspetto del muro la si può avere osservando la foto che correda l'articolo di Pietro Bonfiglioli pubblicato sul «Quotidiano dei lavoratori» un paio di anni più tardi [ Bonfiglioli 1979 ]. La didascalia che accompagna l'immagine nella copertina del primo fascicolo (su quelli successivi comparirà invece un sommario dei contenuti) pone l'accento proprio sul fatto che i colpi sparati sono stati numerosi e sulla necessità di contarli: «Attorno ai fori, secondo il rito, un cerchio di gesso bianco calcola il numero delle pallottole». L'attenzione agli eventi della cronaca è dunque in primo piano - e la posizione della rivista riguardo a quegli eventi è da subito ben delineata - ma se continuiamo a leggere la didascalia di copertina, una riga assegna all'immagine del cerchio una connotazione metaforica più generale e meno legata all'attualità, in ossequio a quella doppia anima della rivista di cui si parlava prima: «Dentro il cerchio. Fuori del cerchio». Nel già citato editoriale di apertura, Scalia sottolinea che il lavoro che si sta intraprendendo è un tentativo di «uscire dal cerchio che ci si disegna intorno» [Scalia 1977, p. 7]. Questo desiderio di andare oltre confini spesso vissuti anche come un'imposizione, nasce con ogni probabilità anche dal fatto che molti dei redattori si muovevano da posizioni di un certo rilievo e/o in contesti formalizzati e in varia maniera istituzionali. Scalia era considerato uno dei più importanti intellettuali bolognesi, Giulio Forconi lavorava alla Zanichelli, molti si muovevano in ambito universitario, con il Comune di Bologna collaboravano strettamente Vittorio Boarini, fondatore e a lungo direttore della Cineteca, e Pietro Bonfiglioli, tanto che a un certo punto quest'ultimo, che era presidente della Commissione Cinema del Comune, si pose il problema di una possibile contraddizione. Così lo ricorda Zangheri: «C'è stato un momento in cui [Bonfiglioli] mi chiese se ritenevamo fosse opportuno che continuasse a svolgere il suo compito, dopo i contrasti che ci avevano diviso (che del resto non erano i primi): gli risposi di sì, naturalmente» [Zangheri-Mussi 1978, p. 31]. Asor Rosa, nell'articolo che segna l'inizio di un articolato contraddittorio fra gli intellettuali del P.C.I. e quelli de «Il cerchio di gesso» (ricostruito nella sezione L'estate del '77: la nuova rivista e i commenti della stampa ) riprende la metafora del cerchio per contraddire Scalia, accusato insieme agli altri redattori di «aver troppo guardato dentro il cerchio che li circondava, per poter capire che cosa succedeva al di fuori di esso» [ Asor Rosa 1977, p. 1 ]. Nonostante la sua apparente banalità, la metafora del cerchio permette di approfondire quello che voleva essere, e in parte sarà, il posizionamento della rivista nei confronti delle forze politico-culturali che agitavano il periodo.

In un famoso articolo uscito il 29 marzo 1977 sul «Corriere della Sera», Umberto Eco, forse per primo, interpreta gli eventi accaduti e le modalità di espressione del Movimento come fenomeno culturale [Eco marzo 1977] citando i saggi sulla tipologia delle culture in cui Lotman analizza i meccanismi che si vengono a innescare fra cultura dominante e culture minoritarie, più o meno antagoniste. Meccanismi di opposizione che - risolvendosi in gran parte dei casi in dinamiche di interno ed esterno, dentro e fuori, inclusione ed esclusione - Lotman illustra, letteralmente, utilizzando la figura del cerchio [Lotman 2001, p. 156]. La scelta reiterata della metafora del cerchio da parte dei redattori non sembra più scontata e banale, ma diventa produttiva nel proporre connotazioni di opposizione e contrasto fra una cultura "emarginata" e una cultura dominante, che arroccata nella propria cittadella fortificata considera tutto ciò che non rientra nei confini dell'ortodossia qualcosa di "altro" e, di conseguenza, "inferiore". Gli schemi di Lotman però non sono statici, ma prevedono linee di forza: le culture minoritarie, poste all'esterno, premono, con più o meno violenza, per sfondare il cerchio, per superare confini e barriere e invadere il centro. Queste simbologie spaziali si rapprendono spesso, e sicuramente nei fatti bolognesi del marzo '77, in eventi fisici concreti: occupare la cittadella universitaria, cuore della città, è «l'aspirazione iniziale del movimento» formato da studenti che spesso arrivano «dalla periferia, dalla provincia, perfino da altre regioni (i "fuori sede")» [Giovannini 1989, p. 101], nella cittadella essi si barricano per esserne poi scacciati dopo scontri violenti, eventi potenzialmente pericolosi come il funerale di Lorusso vengono relegati ai margini dello spazio urbano mentre sulla piazza si lotta per la conquista dello spazio - fisico, tanto che si arriverà a proibire di sedersi nelle piazze per evitare assembramenti, o comunicativo: a chi tocca il diritto di parola nelle grandi manifestazioni che si susseguono in quei mesi? Nel disegno di Renzo Zanetti che compare nella quarta di copertina del terzo numero del maggio 1978, piazza Maggiore è rappresentata scissa in due da una faglia che separa i giovani studenti da un plotone di poliziotti in assetto antisommossa. Queste dinamiche di opposizione fra centro e periferie - torna in mente il film del 2004 Lavorare con lentezza (regia di Guido Chiesa, sceneggiatura di Chiesa e Wu Ming), in cui grande importanza viene data alla provenienza dall'immaginario e periferico quartiere di Safagna dei due giovani scavatori-rapinatori, ancora più esclusi ed emarginati degli studenti con cui entrano in contatto attraverso Radio Alice - segnano in quegli anni il passaggio da città a metropoli, processo in cui i movimenti del febbraio-marzo '77 segnano un punto di non ritorno [Ilardi 1980, p. 10-12] per la creazione, a Bologna e in altre città, di una «rappresentazione dello spazio fisico e simbolico che si è come pietrificata negli anni a venire» [Bellassai 2009, p. 223].

Quando viene scelto il titolo della rivista tutto ciò è già successo: il suggerimento di Scalia di adottare «Il cerchio di gesso» viene quindi accolto con favore da redattori ben consci delle implicazioni simboliche di questa scelta, non ultima l'idea di spezzare orgogliosamente e programmaticamente i confini dei poteri culturali e politici, pronti a incontrare e sostenere quella che può quindi a tutti gli effetti essere definita come una "controcultura" [Eco gennaio-aprile 1977]. È importante rimarcare l'atteggiamento con cui il gruppo legato alla rivista si pone nei confronti delle forze che animano il Movimento, un atteggiamento ben illustrato dal comunicato con cui decidono di aderire al convegno contro la repressione di settembre: «L'adesione del «Cerchio di gesso» non è da noi, considerata come l'adesione di "intellettuali" dall'esterno, nelle forme tradizionali della solidarietà, della "partecipazione" provvisoria, della collaborazione, più o meno "interlocutrice": a vario titolo, tutte, crediamo, "strumentali". E non lo è, neppure e peggio, nei modi del "dibattito", del "confronto", del "fare opinione" [...] l'adesione del «Cerchio» è, lo ripetiamo, la presentazione e la discussione di materiale di lavoro, di analisi e di ricerca, di un "dissenso" teorico e politico "nella" organizzazione del dissenso "di massa" del movimento» [ Piazza Maggiore era troppo piccola , p. 107 ]. I materiali di lavoro presentati si concretizzeranno nel numero speciale «Agenda numero 1» che esce proprio nei giorni del convegno, ma ciò che ci interessa è l'attenzione a evitare qualunque atteggiamento di superiorità o estraneità, il porsi in ascolto. La controcultura non viene accolta, perché l'accoglienza prevede sempre un'apertura dei confini che può verificarsi solo a certe condizioni e dopo che gli aspetti più estranei alla cultura dominante sono stati limati, ma le si va incontro con disponibilità, offrendo di immettere il proprio lavoro nel flusso della discussione e della riflessione. Sembra che anche da un punto di vista materiale e concreto la rivista voglia "mimetizzarsi" con le tante produzioni a stampa che vengono diffuse in quei mesi, dal momento che l'« Agenda numero 1 » è l'unico numero che viene stampato in offset, la tecnica di stampa che, sostituendosi al Sessantottino ciclostile, aveva regalato la possibilità di rendere anche graficamente quella creatività e quel desiderio di libertà che spingevano qualunque gruppuscolo a pubblicare il proprio foglio a stampa, con una immediatezza rivoluzionaria che è stata paragonata, fatte le debite differenze di scala, alle innovazioni portate 25 anni dopo dalla diffusione planetaria della Rete [La rivoluzione della creatività 2010; Biliotti 2007; Mangano 1998]. Non che l'«Agenda» brilli per inventiva grafica, anzi, non vi sono immagini e anche la disposizione del testo, a parte alcune pagine, è molto "regolare", ma il carattere dattiloscritto, le sottolineature ripetute e quasi fastidiose, l'uso di un corsivo manuale, le danno un aspetto di artigianalità assente negli altri fascicoli - spesso graficamente più innovativi ma chiaramente frutto di una stampa più professionale - e una sensazione di effimero che lo rende concettualmente più vicino alle produzioni del Movimento, non pensate sicuramente per durare. Inoltre, la scelta tipografico-stilistica si sposa perfettamente anche con la proposta, vista prima, di offrire ai partecipanti al Convegno del materiale di lavoro "grezzo", non concluso ma da rivedere e su cui riflettere, uno strumento che non deve finire su uno scaffale ma vivere nelle strade e nelle piazze della Bologna di quei tre giorni "speciali".

Insomma, come diceva Scalia nell'editoriale di apertura, si esce dal cerchio per vedere e capire cosa sta all'esterno. In quali modi si concretizza questo atteggiamento? Ancora una volta ci indica la strada il paratesto del primo numero: sulla quarta di copertina compare la fotografia (di cui non viene riportato l'autore) di una ragazza che innalza al di sopra delle teste dei propri compagni, riuniti di fronte a San Petronio, un cartello su cui campeggia la scritta: «Vogliamo parlare». «Il cerchio di gesso» si propone di dare voce non solo ai propri collaboratori ma anche a «ciò che non possa trovare accoglienza professionale e istituzionale e normale altrove, su riviste, giornali, libri» [Scalia 1977, p. 7]. Che non significa naturalmente non selezionare tout court, ma significa non selezionare sulla base di preconcetti e pregiudizi. Questo dà alla rivista quella dimensione di eterogeneità e "diversità" che abbiamo già rilevato e che ancora oggi si può cogliere a leggere i variegati stili con cui i redattori ricordano quell'esperienza a 40 anni di distanza [Il cerchio di gesso 2018, p. 287-303].

Ma ci sono altre forme, più "esterne", in cui la rivista si pone in contatto, in ascolto e sostiene il Movimento. Boarini ricorda che non solo il gruppo propose un appello per la riapertura di Radio Alice che raccolse l'appoggio di molti intellettuali - datato 18 marzo, verrà poi pubblicato, seguito dalle prestigiose firme, sul primo numero della rivista - ma alcuni di loro si impegnarono in prima persona e concretamente per permettere all'emittente di tornare a trasmettere [ Boarini 2017 ].

Altre curiosità poi - forse manie da bibliotecari, ma a nostro parere utili a illustrare quanto stiamo dicendo - si scoprono dall'analisi della scheda catalografica della rivista . Si può notare che «Il cerchio di gesso» ha avuto (almeno) tre supplementi, escludendo il numero speciale di settembre che fa parte a pieno titolo della serie dei fascicoli. Ci è venuta la curiosità di capire di che cosa si tratta, con risultanze curiose.

Nessuno di questi tre supplementi aveva un reale legame di dipendenza dalla testata (teoricamente) principale. Vale a dire che il gruppo dei redattori non esercitava su essi alcun controllo. La dipendenza era solo formale e serviva a rispettare quanto richiesto dalle leggi sulla stampa, che prevedevano una registrazione dei periodici pubblicati, l'identificazione di un direttore responsabile e altri adempimenti burocratici. Le decine di fogli periodici nati in quei mesi, impossibilitati ad avere una struttura di questo tipo e per loro natura effimeri (spesso incapaci di sopravvivere al primo numero), si appoggiavano alle riviste che invece potevano adempiere agli obblighi di legge, presentandosi appunto come loro supplemento, oppure trovavano un giornalista che si prestasse a comparire come direttore responsabile [Echaurren 1997]. In realtà, chi scriveva su quei fogli difficilmente si sarebbe adeguato ad avere il controllo di un responsabile, quindi chi "ci metteva il nome" si prendeva poi la responsabilità di cose scritte senza che lui ne avesse il minimo controllo. «Il cerchio di gesso» accetta di dare appoggio formale ad alcuni di questi fogli, a partire da «La luna o il dito», che a cavallo fra 1977 e 1978 esce con tre numeri: quello del giugno 1977 è indicato come «numero unico in attesa di autorizzazione», piccolo escamotage per aggirare temporaneamente i rigori della legge sulla stampa; quello di settembre, il n. 1 ufficiale, esce con l'indicazione «Supplemento al "Cerchio di gesso"»; infine il numero 2, datato febbraio '78, risulta essere un supplemento della rivista palermitana «Praxis». La situazione paradossale è che proprio sul numero indicato come supplemento del «Cerchio», i redattori della nostra rivista vengono derisi come «coloro che riflettono e mai agiscono» ( Breve conversazione con Bertolt Brecht 1977). Sarà per questo che nel numero successivo «La luna o il dito» cambia (è costretta a cambiare?) testata di riferimento? Non è dato sapere e ci piace anzi pensare che l'atteggiamento di apertura, di ascolto e di appoggio superasse queste inevitabili contraddizioni, che si manifestarono anche durante il convegno di settembre, quando Scalia rimase vittima della «insofferenza anti intellettualistica» della piazza «che rivelava, al di sotto delle abili provocazioni e manipolazioni "trasversaliste", una domanda positiva di chiarezza e di concretezza» [ Piazza Maggiore era troppo piccola 1977, p. 22 ]. Insomma, prove - anche faticose ma che si ritenevano utili e fruttuose - di dialogo alla pari, cosa per niente scontata nelle relazioni fra i giovani studenti e le strutture più organizzate. Fra i redattori d'altra parte erano presenti diverse generazioni, quindi alcuni di essi erano anche da un punto di vista anagrafico più vicini al Movimento. È il caso per esempio di Maurizio Maldini che fu l'animatore insieme a Roberto Roversi - paradigmatico esempio di convivenza e collaborazione intergenerazionale - del terzo foglio periodico che risulta ufficialmente come supplemento a «Il cerchio di gesso» (per completezza di informazione: il secondo supplemento di cui abbiamo notizia è un «Suppl.to C. Capodanno a Bologna» uscito nel passaggio fra 1978 e 1979, la cui redazione pubblica anche una breve nota sul n. 5 del «Cerchio», p. 59). Si tratta di «La tartana degli influssi» che uscirà mensilmente lungo tutto l'anno 1980, nella forma di un foglio in formato A3 ripiegato in quattro, distribuito gratuitamente e riempito dalle poesie di sconosciuti poeti che venivano invitati a inviare i loro componimenti ai due curatori, casella postale 388. Questa iniziativa inaugura quel «lavoro clandestino e autoprodotto che caratterizzerà i fogli poetici degli anni '80» [ Miccoli 2017 ] proposti da Roversi, spesso in collaborazione con Maldini [Schaeffers 1993; Maldini 2004]. Dal momento che l'ultimo numero di «Il cerchio di gesso» esce nel novembre del 1979 e il primo di «La tartana» nel gennaio 1980, quest'ultima è il supplemento di un periodico che non esiste più ma che prolunga il proprio ultimo respiro nel nuovo lavoro di due dei suoi redattori più innovativi e originali. Perché se si vanno a sfogliare i sei fascicoli de «Il cerchio di gesso», si scoprirà che c'erano proprio Maldini e Roversi dietro la maggior parte delle iniziative più originali e all'apparenza più estemporanee, ma che invece compaiono con regolarità inaspettata su quelle pagine che, fedeli all'eterogeneità della redazione e a quell'origine così tormentata, non furono mai solo analisi e riflessione politica o di attualità. O meglio, l'analisi e la riflessione si avvalsero di mezzi espressivi diversi. La poesia, molta poesia, di Roversi in maniera regolare, di Gianni D'Elia, di Roberto Di Marco, di Stefano Benni, dello stesso Maldini e di tanti altri. Le fotografie, distribuite in maniera tradizionale sulle pagine di ogni fascicolo ma in alcuni casi utilizzate autonomamente, senza testo o quasi, come dossier documentario-emotivo (n. 1, p. 33-40). Sulla rivista comparvero spesso - anche sulla copertina del numero quarto , in cui si registra l'unica eccezione all'ossessiva e isolata ripetizione dell'immagine dei cerchi di gesso - gli scatti di Enrico Scuro, che non solo documenterà quel periodo con le proprie immagini ma si farà in seguito promotore di un archivio della memoria fotografica del '77 e dintorni, ricostruito con l'aiuto di Facebook [Scuro 2011]. Anche la quarta di copertina, lo abbiamo visto prima, diventa veicolo di riflessione e critica sociale espressa con gli strumenti dell'arte, con i disegni di Renzo Zanetti (n. 3 e 4) e la riproduzione di litografie (vendute anche in esemplari numerati a scopo di autofinanziamento) di Concetto Pozzati, Mario Schifano e Rodolfo Aricò (n. 5 e 6). Una multiformità espressiva che ci sembra esemplarmente incarnata nella parte centrale del numero terzo del maggio '78, quando Maldini pubblica Lo squisito delirio [Maldini 1978], quattordici pagine in cui la trascrizione di alcune poesie "graffittate" sui muri bolognesi si incrocia con riflessioni dell'autore e un dialogo con Roversi, il tutto impreziosito da bellissimi disegni di Andrea Pazienza , ospite non più inaspettato della rivista dopo quanto abbiamo detto. Il punto forse più alto dell'eclettismo e del sincretismo che «Il cerchio di gesso» perseguirà come elemento programmatico e stilistico, di quel tentativo di rompere il cerchio che rimarrà sempre obiettivo primario della rivista.

BIBLIOGRAFIA

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Sara Miccoli, Trafficare in libri per la vita intera. Roberto Roversi, le riviste autoprodotte e i fogli di poesia (1977-2011) - I parte https://www.centropens.eu/materiali/articoli/item/70-trafficare-in- libri-per-la-vita-intera-roberto-roversi-le-riviste-autoprodotte-e-i-fogli-di-poesia-1977-2011-i-parte

Piazza Maggiore era troppo piccola. Cronache, fotografie e documenti del 23-24-25 settembre 1977 sul Convegno di Bologna , [Milano], Edizioni Movimento Studentesco, 1977, https://archive.org/details/piazza-maggiore-era-troppo-piccola .

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La rivoluzione della creatività. Il contesto storico in cui appaiono i fogli trasversali, fogli e movimento, tecnologia e comunicazione, A/traverso , a cura di Dario Forni, Milano, Cigra, 2010.

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Enrico Scuro, I ragazzi del '77. Una storia condivisa su Facebook, Bologna, Baskerville-Sonic Press, 2011.

Anke Schaeffers, La ricca signora che fu poetessa. Bologna: dove spesso accade prima che altrove , Bologna, Synergon, 1993.

Cinzia Venturoli, L'Università e la protesta giovanile: gli studenti a Bologna, in Gli anni Settanta. Tra crisi mondiale e movimenti collettivi, a cura di Alberto De Bernardi, Valerio Romitelli e Chiara Cretella, Bologna, Archetipolibri, 2009, p. 249-265.

Renato Zangheri, Fabio Mussi, Bologna '77. Comunisti, potere, dissenso: analisi di un'esperienza dal vivo , Roma, Editori riuniti, 1978, p. 31.

Segnaliamo l'esistenza di due fondi documentari legati a due dei redattori de «Il cerchio di gesso». Presso il Comune di Verucchio si trova il "Fondo librario Scalia", la cui parte più preziosa è l'Archivio privato che dà testimonianza delle relazioni intrattenute da Gianni Scalia con i più importanti uomini di cultura italiani e stranieri.

Presso la Cineteca di Bologna è invece conservato il "Fondo Pietro Bonfiglioli" , formato da lettere, articoli, bozze, manoscritti e pubblicazioni di studi su arte, letteratura e cinema.